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UN ALTRO SOLE

Oggi resto lontano dal tempo,

pur vivendolo,

passivamente,

esso assoggetta la mia vita,

invecchiando quel poco di saggezza,

indebolendo il mio corpo,

ogni parte indegna di me,

solo per offrire al meglio,

quel che non giunge mai alla retta via.

Oggi concedo al sole di punirmi,

di lasciare che illumini,

malgrado io non voglia,

i miei passi,

ogni volontà di luce,

malgrado la cenere, spietata,

volga a ricomporsi in me,

tutte le volte che non sono attento,

sorpreso dalla solita retorica,

da vari lampi interiori di irregolatezza.

Oggi reitero solennemente,

senza bearmi della volontà,

annunciando la fine ovvia delle mie cattiverie,

scandalo di carne e ossa,

sull’apocrifa linea retta,

che non bacia più la mia bocca.

VERAMENTE ATTRATTO

Le mie garanzie non ottengono fiducia.

Perdendomi,

nelle grane di ogni giorno,

osservo i mutevoli atteggiamenti,

la classe operaia che attinge dal fumo nero,

un sacro convito per spolverare più osservanza,

tentennando,

opacamente,

su scelte e modi sacri.

Mentre la mente viola il suo segreto,

mentre mi avvicino al patibolo,

non estinguo un sortilegio,

non avverto l’aria di rinnovamento,

il vero motivo di ricusare un atteggiamento.

Prolifero qualche intenzione,

comunico a gesti.

La parola, ormai,

regna sovrana solo nei miei pensieri,

crocifissa dietro una tastiera,

nascondo bene il mio intelletto,

(se mai l’ho avuto),

assegno preghiere e divulgo frenetiche pulsioni,

per respingere finta allegria,

assoluta neutralità per tutto.

Non sono i giorni a coltivare il cuore,

semmai l’anima,

spazia i sentimenti per qualcosa di ineluttabile,

inafferrabile,

mai uguale al principio che designa una parte,

un ruolo più volte recitato,

conosciuto a memoria,

scaldato per le prossime occasioni.

Un volo in più,

un concreto abbaglio sinistro,

a quel che resta di reale,

in questa sospensione opulenta di sofferenza.

ERRANTI

Cavalieri erranti,

postumi di un Era post moderna,

soggetti a sacrifici articolati,

maestri del nulla,

nel sazio contendere della parola.

Cavalieri erranti,

logori di parole,

mai sparvieri di questa disfatta,

padroni assoluti del Nulla,

caratterizzati da un ombra feudale.

Cavalieri erranti,

su terre sconfinate ormai depredate,

lasciate a marcire sul veto di troppi corpi,

intelletti feriti da strumenti cartacei,

cruenti e paradossali senza più armatura.

Cavalieri erranti,

pioggia e vento, sanciranno questo tempo,

senza spazio tentennato,

sul fuoco di una spada mai acerba,

i secoli imbastiranno altre tragedie,

per sconfggere l’elmo della rivalsa,

sul disfacimento morale del distacco,

le ora predicheranno nuovi dogmi,

mentre l’epoca attuale adempirà all’ira

di un ricordo sepolto dalla ruggine.

CATTIVO SOGGETTO

Ogni giorno rimando il mio romanzo,

in un senso spietato di logoramento,

non riesco a concentrarmi,

distribuire un vasto senso al mio progetto,

alle mie idee,

a tutto quello per cui ho sempre dato tutto.

Non c’è verso di trovare una soluzione,

un valido udire buono,

in me, nulla riecheggia di ammirazione.

Leggo e rileggo quelle parole,

ma poi non mi accingo mai,

a nessuna correzione,

o a commutarere finalmente,

un piccolo passo in avanti,

per sistemare il tutto.

Sono io, forse,

quello che si assenta,

in un totale sperpero di tempo,

ormai,

da cattivo soggetto,

mi rendo conto di parafrasare il nulla.

Mentre la vita si consuma,

mentre io stesso mi consumo,

non arbitro più questa partita,

non accresco nè recrimino.

Solo una cattiva abitudine a tutto,

troppi castelli pervenuti in fretta,

e il cervello,

per lo più spossato,

evoca dubbi e sinuose congetture.

SENNO

Nuove logiche,

affrante su vecchi giri di parole,

masticano il mio entusiasmo,

quella poca necessità spicciola,

tra rumori diurni,

e piccole tentazioni.

Mentre il mondo sputa egoismo,

io rigurgito un eccitazione affranta,

reciproca nel desiderare un corpo mai posseduto.

Arriva sempre,

quel momento poco libero,

la ferocia mascherata da abile donna,

precoce nel ristabilire un dissesto orale,

immaginando altro fumo,

spacciando nervi tesi,

oblique ginestre maledette …

IL CALDO

In questa marea nera di parole,

vado in collisione con la mente,

nonostante il caldo,

fuori,

provi a metter fuoco su certe cose,

io resto consapevole della consistenza illegittima,

un denso accusatore di controverbiali mansuetudini.

Un colorito morbido,

attecchito dall’assenza celebre,

mentre il rumore,

da certe parti dell’anima,

rischiara solo l’avventatezza scandalosa.

Sarò breve,

immune ai soggetti,

eloquente nei modi.

Una poesia che non racconta,

ma che indosso realmente.

PAROLE E ICONE

Davvero,

questi giorni,

come un sacerdozio tardivo,

tracciano una rotta sbagliata,

un inversa delusione alle ostilità,

al cuore,

a vecchie prassi che vagano in me,

ostinatamente,

puntualizzando un fascino quasi acerbo,

stanco,

un indiretta procedura di non eletti,

indignazione affaristica e regale.

 

IL NOSTRO IERI

Non ho avuto abbastanza occhi per amarti,

stringerti a me per sempre,

evitare il barlume della gelosia,

inasprendo quei giacigli ossessivi della mente,

ogni respiro sorvegliante,

ogni istante seguito con acredine,

scrupolosamente ai marigini riluttanti del mondo.

Non ho avuto vita facile insieme a te,

malgrado mi fossi assoggettato alle tue regole,

i tuoi modi,

il tuo vivere per la libertà,

perennemente in bilico tra iperattivismo,

e una logica mai razionalizzata.

No, non sono stato abbastanza forte,

protettivo,

malgrado il tempo, oggi,

mi dia ragione su tutta la linea dettata,

fatta storia ormai,

ai posteri,

l’ardua sentenza di demarcare  a fatica

il nostro Ieri.

Non ho saputo starti accanto,

accogliere le tue istanze,

tacere al momento opportuno,

glissare su certi comportamenti familiari,

quando tutto, inevitabilmente,

ci cascò addosso,

senza avere neppure il tempo,

di scorgere una via di uscita,

un altra opportunità per noi due,

per gli otto anni che ci legarono,

giorno dopo giorno,

la base di un rapporto improvvisamente defunto,

rinchiuso solo alla prassi della mente,

al solito gioco retorico dei ricordi,

a quella furtiva memoria,

che gioca uno spauracchio mai sensato ..

Non sono stato capace di costruire

ciò che volevi,

mentre i nostri passi incerti,

vagliavano un addio,

una lenta conclusione affrettata da un giudice,

farfugliando un motivo,

interrogando l’albergo mediocre di quei giorni,

ove tutto ha sposato incoerenza,

senza più tornare all’amore raggiunto.

L’ALIBI DEL GIORNO DOPO

Un alibi trapela,

dentro la mia città,

ove mura spesse,

hanno recintato i sentimenti,

le voci,

le spie,

tutti quei sensori marginali.

Un portento soggiace indirettamente,

scollegando fili,

tributando menzioni,

amori,

solidali caratteri senza più voce.

Un istinto sovrasta l’altro,

armando l’anima di lucide cinta,

annientando ai posteri,

questa base dove sopravvivo.

Cemento, pilastri,

camere troppo piccole,

per non avvertire il marcio sociale ..

Rinchiuso nel mio edificio,

osservo il mero cambiamento,

cataclisma generico,

la neglicente stesura di altre immagini,

accavallando fantasmi e volti reali,

finzione e società reietta.

Un alibi respira,

agevolando il mio percorso

dentro il Mai,

in uno stato incosciente di abitudini,

mentre altrove,

nuove sentinelle,

potranno mostrare ali nere,

per  caratterizzare i corvi alle pareti,

sostegni dimensionali giammai raggiungibili.

Un alibi richiede sostegno,

deglutimento appetibile,

negoziando su terra aspra di fetore impulsivo.

SEQUENZA

Abituato a colori orrendi,

attenuo la speranza,

a false intese personali,

mentre altrove, tutto,

indossa una belligerante intesa,

una corrotta sensazione che spazia oltre il tempo,

la moderata funzione di gesti sommati a memorie,

lo spartiacque ingeneroso,

la dovuta conchiglia che più non giunge all’eco.

Rafforzato da dovizia,

attendo l’esodo del cuore,

per ancorarmi saldamente all’apatia morale,

per non disperdere altro sentimento,

invertire la rotta, lasciando incompiuto il mio orgoglio.

MEMORI DEL TEMPO

Caro amico,

ti scrivo da lontano,

seppur vicini,

nel cuore,

nei momenti che abbiamo

condiviso insieme.

Di tempo, e cose,

ne abbiamo vissute tante,

in una struttura che non ha conosciuto

alcuna resa.

Momenti difficili,

l’avvicendarsi e il concludersi di storie importanti,

noi eravamo ancora qui,

confortati dal nostro focolare,

anche quando non c’erano parole,

l’affetto ci ha affiancati,

custoditi,

salvati dalle brutture del mondo.

Caro amico,

ora che i mesi hanno sostituito la pace,

con la mente sono andato a visitare i nostri ricordi,

quell’inintterrotta pioggia di sorrisi,

gesti,

amorevole condizione sempre vissuta in due,

nel bene e nel male,

non ci eravamo mai perduti come adesso.

Solitario,

da tempo immemore,

ho articolato un discorso confuso con la mente,

ho sedato i miei giorni,

ingannando le ore,

strodendomi il più possibile a tutte le brutture della vita ..

Caro amico,

mentre questo temporale estivo,

investe questo frangente,

non trovo altre parole,

(o forse non vogliono venire fuori),

ma ti ringrazio per tutto quello che hai saputo darmi.

Non recrimino nulla,

neppure quelle cose che sono rimaste in sospeso,

senza alcun chiarimento.

Caro amico,

si fa sera presto,

e qualche lacrima non avverte mai,

la linea segmentata che spezza il mio cuore.

Perdona questa nenia,

il vittimismo,

l’inespressiva immagine che straborda tutto.

Caro amico,

ho scoperto che l’orrore della vita,

abbandona a sè stessi,

dimenticandoCi,

in quella linea di ombra che ci ha separato.

Non c’è un finale,

o altro da aggiungere,

ma un gran bene che conservo gelosamente.

IL TUMULTO

Prostitute belliche,

angeli ribelli,

alla voce proclamatasi libera,

in mezzo ad un area che sovrasta pietà,

dentro la sera avvezza,

desiderosa solo di concedersi,

per rancori agiati,

avvizziti nel cuore,

tormenta gestuale di troppe mani.

Il sudore, poi,

arrendevole carezza i rimorsi,

quel senso adeguato di facile rifinitura,

come un giocattolo democratico,

la partita rompe le ossa,

nel divenire succoso,

in aperta campagna,

nobili sentieri per piccole poesie mai innocenti.

L’evolversi della specie,

soggiace al disinteresse attuale,

imperitura,

pieghevole e succinta inferiorità.

Le redini corrotte,

la pacatezza dissoluta,

l’emergenza di un vento mai sedato ..

IRREQUIETO

C’è un Demone,

sovrano su tutto.

C’è buio, elargito dal suo spettro.

Un mausoleo riverso,

cenere oltre la poltiglia di una setta,

ancora preghiere nere,

meandri sconosciuti e mai filtrati.

C’è un Demone,

scaturisce la realtà,

nervosamente pigro sulle coscienze,

clicca nei meandri oscuri,

tace sugli uomini di Chiesa,

sposa sospetti negativi,

lambendo sangue a nuove appartenenze.

Una tigre,

un guardingo animale di frontiera,

negoziando su favole riluttanti,

indossa pelle morta,

per ammansire i presagi,

focalizzare gli obbiettivi,

annientare gli spergiuri.

C’è un demone,

per le strade,

idra pensante,

onnivoro di vecchie tribù,

orco sconsiderato della profilassi.

Una genetica remunerativa,

un agio breve,

per fratelli dissipati nella culla ..

C’è un demone,

io lo conosco, veglia costante,

ad ogni respiro dominante ..

C’è un bambino,

succube di troppa memoria.

SI FA GIORNO

Si fa giorno,

sulle stesse maschere di ieri,

dopo una notte disagiata,

tra freddo e consapevolezza,

ho lasciato morire i pensieri,

dentro un vortice gelato e senza emozioni.

Si fa giorno,

mentre il sole, stamane,

accarezzava la spiaggia,

il mare,

in un silenzio assordante,

la bellezza ha mostrato i suoi raggi,

il potere delle ore sovrastanti su tutto.

Si fa giorno,

anche per me,

per tutto ciò che ieri ha abbracciato la mia resistenza,

l’oblio,

la postuma volontà di accorciarne il pericolo.

Si fa giorno,

il chiacchiericcio mondano diventa mercato,

voci e gesti mansueti,

con la stessa scure pressante negli occhi,

malgrado accarezzi per finta un saluto,

il male interiore si propaga.

Si fa giorno,

poi sarà ancora una volta sera,

ma si fa giorno ..

E tutti abbiamo il diritto di recitare questa controversia sociale.

 

E TUTTO VERO

Tornerò a ficcarmi il cucchiaio in gola.

Sarà un ritorno verso me stesso,

un dolore del tutto naturale,

a cui manterrò fede,

lentamente,

fino a non sentirne più lo sforzo fisico,

crollando dalla stanchezza,

ammantando pensieri superflui,

cullato da una mediocre realtà,

mi renderò superficiale,

marcio, sorretto da fili sottili,

fino a quando non avrò spento per sempre

questo legame alla vita,

il peso che trascino coscientemente ogni giorno.

Avrò modo di piangere stanotte,

stordirmi di lacrime,

ripescando una sillaba umana,

alla coerente fragilità di cui sono vittima.

E tutto vero qui,

mentre scorro gli occhi sulla tastiera.

Nessuna finzione,

nè maschere da discutere.

Lascio il mondo per quello che è.

Lascio il mio posto a chi sarà capace di normalità.

UN VULCANO DI PAURA

Ho freddo al cuore, perchè?

Domanda alquanto intutile,

mentre fumo l’ennesima sigaretta,

e l’imbarazzo della vita mi scivola addosso.

Risento un bivido alle ossa,

un antica musica mai assopita in me,

riemersa dopo un periodo di pausa,

torna prorompente in me,

divaricando le gambe della mia mente,

affaticandomi al dolore,

e a tutte le difficoltà che non mi danno tregua.

Sarà sempre così per me.

E’ giusto che sia così.

Devo tener fede alle colpe,

ai peccati,

a tutti coloro che stuprano la mia emotività,

questa stupida condotta che non mi scrollo di dosso,

questa solitaria e mai tardiva influenza,

l’incosciente peso delle parole,

a cui non sarò mai pronto,

cauto e sommario.

MORTI AL MONDO

Ho sepolto il cuore di nuvole,

lasciato agire il disagio,

l’emotività spicciola,

il sentimentalismo logorroico,

pur di non compromettere un sorriso,

pur di apparire sereno,

costante e decoroso,

in questa cerchia di uomini punitivi,

senza la benchè minima emozione,

ho pianto dentro,

a dirotto,

legando il mio cuore ammutolito a un sasso,

straniero pur in mezzo ad altra gente,

clandestino e mai accettato.

La società si beffa dei piccoli,

facciamo rumore solo quando sovraggiunge la follia,

e l’eco dei giornali ci trascina a mostri della porta accanto,

attraverso quella serenità e atteggiamento

del va tutto bene, sono perfetto.

Ah, quante maschere spietate di dolore,

dietro quei visi teneri e sensibili.

Quanta fragilità interiore,

silenzio,

rotture odierne di cui pariamo il colpo,

fino a giungere alla fine,

qualunque essa sia,

esplodendo in una miscellanea indecorosa.

Il rispetto per noi non c’è,

che portiamo il peso del mondo,

anche nelle sciocchezze,

in tattiche spesso mai violate.

Per noi resta un disprezzo vigile,

un azione sempre a perpetrare sulla nostra pelle,

riversi in uno stato comatoso,

collaboriamo,

ma non v’è alcun riconoscimento.

Un giorno,

qualcuno, o qualcosa,

ci salverà dalla selva oscura costruita ingiustamente.

Ma prima di quel giorno,

la tempesta si abbatterà sulle nostre teste,

nella speranza suicida e convulsa,

teneramente assopiti,

avremo più possibilità,

lontani dagli occhi della gente,

senza più rossori.

LE MIE COLPE

Mi sono perso in queste nubi serali,

mentre dalla strada,

un insulto da un auto in corsa,

riecheggia rivolto a me.

La stessa storia,

da sempre, si ripete.

Più provi a cambiare,

a voler essere positivo,

sociale e aperto,

più ti rendi conto che la gente

non ti da possibilità,

nè un momento di tregua.

Così tendi a lasciar perdere tutto,

senza mai minimizzare,

scontando colpe enormi,

le stesse che (mi) stanno sempre dinnanzi,

colpe per cui vivere è diventato faticoso,

colpe per sentito dire,

da parte di chi alza la voce contro di me,

colpe trasparenti,

un pugno ferreo e stritolante,

scivolando nella mia fragile corazza,

annientandomi ulteriormente.

Sarò in grado di farmi del male domani,

avrò la capacità di vomitare pure le viscere se necessario,

per espiare questa inadeguatezza,

questo spietato ruolo che mi è stato cucito addosso,

il margine che espelle e ingurgita la mia vita,

dentro vortici senza posizione,

in un orrenda controversia mai sedata.

Colpe di cui non conosco il nome,

colpe e indicazioni che rimarcano il mio status.

Colpe, comunque colpe,

colpe di essere nato,

di indossare ipocritamente una maschera,

sorridere a compiacimento,

imbellettando il viso alecremente,

ma dentro muori,

tutte le volte,

senza capacitarti di altro.

IO, NESSUNO

Rubo pensieri alla notte,

fumando l’ultima sigaretta,

immaginando un esaltante Domani,

una notte meno insonne,

sogni meno pesanti,

senza più fantasmi di vecchi amori,

o ex amici che mi hanno sepolto vivo ,,

arranco con malinconia senza tregua,

illudendomi ancora

di poter pubblicare un libro,

dare alle stampe un figlio,

una mia creatura cartacea,

che da sempre alberga in me,

ma non trova spazio in questa società,

circondata da mediocri sozzi e burocrati,

il mio qualunquismo fallisce.

Io non busso porte,

non conosco,

non ho la giusta misura di essere ..

indi fantastico un altro poco,

prima di mettere a nanna i pensieri,

certe mitologie positive,

che non portano a nulla,

se non a questa deriva realistica,

verbalizzata da quel che avrei potuto essere,

costruendo un bel trofeo agli inganni

che mi hanno posseduto,

in un lasso di tempo creativo,

sprecando ore,

sentimenti,

imprecando semmai sull’inerzia ,,

metabolizzando un poco per volta,

l’inesistenza che governa la mia vita,

costruita su parole che non interessano a nessuno.

AMIANTO

Ho sostenuto il peso di molte colpe,

lo faccio ancora,

pur sedato da un certo istinto immacolato.

Digito parole convulse,

e mi accorgo di spegnere ogni contatto

con la realtà,

con ciò che sovrasta ogni umana presenza,

assenza,

l’ineluttabile e insormontabile trapasso

delle idee,

il veto illogico di un immaginazione,

una taciturna e contrita idea,

in questo fiume denso,

spento,

mai del tutto furioso,

che obbliga vedute parallele,

frangenti per cui adorare una sola bestia,

in nome del proprio demone,

mentre altrove,

reclino la testa per non badare

all’ininfluente zavorra del mio corpo.

In brevi o lunghi attimi,

ho solo attinto del tempo

per ringalluzzire questa leggiadra disarmonia,

il sermone involutivo della mia Genesi,

una ascesa fatta al contrario,

solo per afferrare l’inimmaginabile,

il senso esteriore di quello che non avverto,

ma so,

di possedere saldamente in me,

come un passo spedito di rimando,

accentuo un respiro,

osservando le rilegature sociali,

lo scricchiolìo moderno dei giorni,

il nuovo che avanza scarabocchiando altri fogli,

una bruttura dietro l’altra,

una faticosa natura d’amianto,

servitore silenzioso dei miei gesti,

romanzo la mia vita,

avverto il desiderio di narrarlo,

ma non viene fuori.

V’è troppo orrore vigente,

in quelle regole che ho finto di condensare,

mentre a coagulare i pensieri,

ho lasciato spazio libero ai ricordi,

quella dannata funivia di vertigini,

tra lenti oblii e sogni obbligati.

Una vita non mi salverà,

non un amico,

a cui abbozzare lo sfinimento.

 

FILTRI MAGICI

Si coltivano prigioni alla memoria,

qualunque cosa,

pur di non semplificare alcuna concessione,

arrendersi,

prostrare fiducia alla velocità attuale delle cose,

a metriche e preconcetti saturi,

per una vergine cultura di riservatezza,

una meta imprevista dentro l’altra,

una voce mai collusa con gli sguardi.

Brevi intenzioni al mattino,

brevi orrori senza matrimonio,

capi leggermente esteriori alla condizione.

IL CULTO SIMBOLICO

Rabbia fertile,

simboli che trasfigurano il sole,

racconti che di proibito nascondono

solo il concetto.

Migliaia di anni,

migliaia di braccia in equilibrio,

Dei nati da un invenzione chimica,

tra mitologie e princìpi favoleggiati.

Il primordiale trionfo della vita,

ritira becere parole,

affronta santuari,

creazioni e offerte dipinte su pareti opache,

figure superstiziose,

vandalismo di un trono che offre carne.

Un orgia, una carcassa macellata dal re,

il rappresentante che sputa terra,

tra doni regali e secoli

d’inconscia veemenza.

 

UNA GAMMA DI DECALOGO

L’incombenza e un ruolo che conosco bene,

un mangianastri che ripete il suo refrain,

a tratti surreale,

mentre il tempo assorbe ogni forza,

tra il ticchettìo forzato,

e l’ora buona per chiudere gli occhi,

nei meandri dei sogni,

in quella caterva che protegge,

un invisibile forza prematura che trionfa,

malgrado resti vigile,

una forma assenteista di ricerca.

Un tesoro vale l’altro,

per redimere ogni aspetto vano,

ogni parola che con scaltra andatura si perde,

nella bocca di chi

non ha mai smesso di mentire,

o smentire se stesso.

Qualunque cosa,

pur di sfuggire ai tentacoli del mondo,

delle cose,

della percezione dannata che divora senza pietà,

nei cicli,

oltre l’emisfero snaturato delle emozioni.

Non si torna mai da un calvario,

ma se ne compara la sofferenza,

il tanto atteso sospiro di morte,

che soggiace nel piacevole gioco di nuovi santi.

LE MIE COLPE

Ho vissuto secoli migliori per invecchiare,

imbrogliare al meglio le carte,

rubare,

per poi consumarmi di preghiere,

affannato da un finto eufemismo,

in posture compiacenti di un altra identità.

Ho avuto ben altro con cui combattere,

perlustrando a fondo l’apparente

dottrina degli uomini,

fingendo in maschera,

lasciando cadere persino quel velo di pietà,

una sottile presenza da commediante,

allegorie di un anima mai presente,

nei tasselli ravveduti della vita,

mi sono solo scontrato con sfaccettature di plastica,

menzogne in simbiosi con l’idiozia,

cervelli rispolverati da una stoica possibilità.

Ho creduto di affiancarmi alle migliorìe del cuore,

emozionato come un bambino,

a sorridere scioccamente di tutto ,,

ma (tutto) questo tempo,

ha ben messo in evidenza

la facciata di convenienza che possiedo,

una pieghevole psicologia che smuovo a seconda

della convenienza,

una bandiera simbolo,

di un vivere sbagliato,

tutto mio,

come le colpe.

SONO NEI GIORNI

I giorni muoiono sul nascere,

osservandoli scaturire fulmini,

traiettorie orrende,

fatiche interminabili di posture e comportamenti

mai uguali.

I giorni muoino per ferirci,

avvezzi ad una cultura spietata,

su ogni millesimale spazio senza tempo,

rileggono la posologia delle menti,

varcando aneddoti spesso corruttibili,

tendendo a rimarginare il bello,

il brutto,

la pieghevole smorfia che ci trascina per il mondo,

piatti,

volgari imitazioni di altra gente,

nei secoli ormai assetati,

non abbiamo concesso regole sentimentali,

per non sentire freddo,

calore,

emozioni riconducibili a sensazioni forti.

I giorni muoiono senza iride,

zavorra controvertibile e generosa,

terra acre al sapore di miele,

spazzatura gioviale,

corpi riluttanti al presente.

I giorni,

da qualche parte,

sono l’usura del mio sguardo,

la tendopoli di uno specchio  mai assopito,

l’elaborazione vera,

delle più nascoste ideologie ,,,

i giorni,

i giorni,

questa polvere che non smette di soffiarmi addosso.

MERCE DI SCAMBIO

Impresentabili,

guardinghi attraverso una specie diversa,

i gesti osservano la luce splendida del tempo,

mentre le ore non sanno più districarsi,

dal malore potente che precede il caldo,

le osservanze lasciate ai posteri dei giorni,

su tacchi estroversi,

ciglia fin troppo succinte,

trucco elaborato dalla facile estromissione

da marciapiede.

Il picco,

l’apice che annuisce,

il colpo specifico mai rettificato.

Spiccioli ingenerosi riversi al buio,

mentre il lavoro forzato

motiva il piacere altrui.

Un altra notte verrà,

a scaturire erezioni,

e facili compromessi legati ai vizi.

Un altra alba risorgerà,

sui dimenticati clichè del buio,

a rimarcarne la distanza,

le obsolete tentazioni,

i rimorsi,

tutto il lustro affaticato e belligerante.

Un altro soffio,

su vecchie sozzure ditero l’angolo,

sapranno tenderti la mano,

in quegli spiragli mai violati,

per il lusso di convivere con moderna assuefazione.

NOTE DOLENTI

Oggi riscopro categorie perdute,

affronto le pagine vuote della mia vita,

arricchendole di innata spontaneità.

Comprando merce a breve scadenza,

allungo la prassi del cervello,

alleno in fretta la bizzarra selva del cuore,

errando prematuramente,

scansionando una vecchia carcassa mai arresa,

al servizio moderno del mondo,

basandomi su elemtnari questioni cigolanti.

Sarò breve,

distante,

vicino a qualcosa che non sa più raccontare.

Avrò modo di colorare i miei occhi,

annerire le guance,

finalizzarne il colluttivo freno senza mai determinarne una scelta,

scandendo un ritornello mai uguale,

su note che non potranno più ripetersi.

LA MIA SVENTURA

V’è sempre una mediocrità che ritorna,

sotto quella caterva di insulti,

il mondo sembra beffarsi,

ineluttabile del sistema prestabilito.

Me ne accorgo di rado,

quando scorgo gli occhi verso il nulla,

e tutto il resto mendica una resa di posizioni senza fiato,

mentre le parole si affannano,

non riuscendo più a percepire il senso ragionevole,

l’appropriatezza giusta,

per rimarcare idee,

felicitazioni,

od ogni sorta di finta abitudine.

In questa aberrante nocciolosità,

avverto gli spasmi della mente,

i muscoli che accavallano sentieri spenti,

mentre talvolta,

figurativo alla mia ombra,

mi arrendo a questo tassello mai ricolmo di gioia.

Perchè mentire ancora?

Quale altra tesi sostenere?

Mentre il mondo morde le origini,

ogni particella di me,

annienta il dolore,

scaturendo in una maestranza di assoluta prigionia.

Non sono le parole a condannarmi,

ma i fatti,

questa estrema visione che non ha più colore,

un tentativo come un altro,

di desiderare un cuore,

un vero sentimento alcolemico.

La mia sventura,

a caratteri cubitali,

mette in natura una lodevole particella deviante,

un binario che fraziona i vagoni,

che attanaglia possibili collisioni,

fra universi aspersi e digitati,

lo scorrere di una tastiera eloquente,

evince un turbine silenzioso e ricorrente.

La mia sventura,

fa capolino tra i ricordi,

a ridosso di un bambino che sapeva gioire di letizia,

tra scorribande felici,

amabili percorsi sortiti in me,

un appartenenza ormai defunta.

La mia sventura,

sta nel vedere la realtà per quella che è:

un soggetto tossico che esprime veleno,

un sottile venticello che mi sposta,

senza aver mai dimenticato la dignità,

l’inospitale natura del mio corpo.

L’ESTENDERSI DEL GIORNO

Quant’è lenta l’ipocrisia,

mentre schiva, saccente,

i suoi paradossi,

polverizzando la mente,

anestetizzando ogni mediocre attività,

lasciando da parte una lenta abitudine,

una civetta sinuosa e mai partecipe.

In questa intercapedine nevralgica,

si attua il gioco pericoloso delle parti,

le membra che gesticolano senza rabbia,

mentre altrove,

il sole alimenta speranza,

mobilità,

uomini e donne disperse nel mondo,

dietro al denaro,

al progetto che ingloba e rende meccanici ..

Com’è difficile accettare questo,

la ribelle tentazione che non rende partecipi,

ma gli uni contro gli altri,

ad usurpar fiducia,

ingiuria,

attrattiva saltuaria per modi contrari.

Una vasta gamma rilassata,

un libro che risuona debole nell’aria,

mentre non si bacia mai per utilità.

La ripetizione millesima di certi gesti,

porta a combattere il qualunquismo,

i timbri di voce,

la pacata e nobile arte che scambia ruoli,

movenze,

mentre tutto istruisce volentieri

un altro giorno senza memoria.

HO PAURA

Paura del mondo,

paura delle strade,

di uscire ,, di rendersi conto di esserci,

malgrado l’indifferenza altrui.

Paura di me,

paura degli altri,

della schiva interferenza,

del sole,

di queste belle giornate che estetizzano il tutto,

senza mai raggiungere l’anima,

l’obbiettivo centrale di tutto questo correre,

o rincorrersi,

sopportare realmente ogni maschera,

l’aggiunta ossessiva del dover sorridere forzatamente .. !

Paura dei discorsi,

delle troppe bugie,

dei ricorsi mentali a cui si rifugge ..

Paura costante,

paura viva,

respiro responsabile di quel che sento,

tacitamente agitato e altalenante,

schivo al prossimo,

confuso nel vedere l’urbanistica che più non mi somiglia.

Paura,

eterna stasi di un percorso giunto quasi alla fine.

IL PRESENTE SERBANTE

Oggi modifico l’assenza,

abbeverandomi d’assenzio,

dentro una funesta arretratezza.

Nessun giro di parole al mio egoismo,

a questi lunghi sermoni liberi,

piloti automatici delle mie trasferte,

idioti sensori di assidua testardaggine.

Resta un suffragio,

una bandiera mai ammainata,

per la speranza che non sarà,

per il futuro che non verrà,

per l’amarezza reale di questo Presente.

L’amarezza forforescente della mia bevanda,

trascende quel pò di irrequitezza restante,

attraverso la sua zolletta di zucchero,

non disdegno questo percorso,

per rifugiarmi eccitato

all’opposto di me.

LIBERI INTERESSI

Un lontano eco di noncuranza,

appartiene alla mia indole,

a questa pigra ipocrisia che indosso,

come una solenne armatura,

un vetro mai sottile,

tra lo spessore incisivo della mente,

e la lucidità capace di varcare il demonio.

Un equilibrio mai sottile,

una flebile curiosità di mondi inesplosi,

una corrente lucida di risentimento ..

Affezionato ai clichè,

disarticolato tra le bozze della memoria,

non accelero mai,

senza prima aver corrotto il corpo,

quella disaffezione carnale alla vita.

Mai nulla di logico,

nella frazione sgrammaticata di questa finzione,

tra pietà teatrale e un lungo applauso alla sintassi,

celebrando occhi sperperi,

e cicatrici votate all’imbeccilità sociale.

DI GIORNO IN GIORNO

Molta fretta comune, molto disagio,

sorvola le nostre teste,

agitando una costante che non assorbe

tutta questa materia,

malgrado si scivoli in fretta,

su modi di fare e discorsi già pentiti.

La tanto agognata attesa,

il ritorno a certe abitudini,

il sottile compromesso tra cervice e capacità,

mentre si avvalla un tramonto,

una sintomatica ressa di basi mitragliate,

assediate, tediate.

Dicevo della fretta,

articolata in ognuno di noi,

a scorgere tentativi di comprensione,

mentre molto spesso,

ci si lascia andare a giudizi avventati,

additando,

colpevolizzando,

senza poter estromettere nulla di concreto.

GLI ARTISTI SENZA TELA

Ci sono vite senza spazio,

nel deserto emotivo del proprio inconscio,

mentre tutto traspare sudore,

in una conferenza stampa in solitario,

la ruggine,

le discussioni,

la pietà lasciata ai posteri della gente,

solo per rendicontare confronti,

parole,

chiarezza ..

Un fatuo meandro lasciato ai margini,

che respira,

malgrado tutto,

un solitario malestrom della stessa solfa,

un fottuto controllo che non ha difese.

La mente,

fresca,

rimette ad imparare,

in un futuro improbabile,

le banalità gestite dal rancore,

mentre un pianofore rasenta la bellezza,

su tele ideologiche,

sentite dentro l’arte,

guidati da una pittura che non vede,

ma sfugge …

LO STILE DI UNA STORIA

C’è terra moderna,

qualche passo evolutivo,

metodologia amalgamata dal caos,

sapori assai estinti di ieri.

Una notte,

ho seguito i tuoi passi,

quel dolce tesoro del nostro amore,

fino a Casale Monferrato,

ove ritrovai passione,

calore,

il primo abbraccio di quel 14 febbraio 2001.

Poi, la luce del sole ha corrotto

i colori della tenebra,

lasciandomi addosso

questo desiderio di te,

del tuo corpo nudo ancora stretto al mio,

all’unisono,

desiderosi di ogni intreccio,

tra lingue orientate l’una dentro la bocca dell’altro,

accendendo candore e bisogno di nuove scoperte,

in quell’hotel ove consumammo tutto,

persino le attese di un età illusoria,

la ressa per arrenderci,

ormai giunti al capolinea,

da un futuro incerto e silenzioso.

Il misto profumo del tuo piacere

disseminato in quel letto,

la foga ingenua del primo orgasmo assaporato fino in fondo,

accalorando l’attesa,

ora dopo ora,

giorno dopo giorno,

in quella permanente immagine di due scellerati clandestini,

a seguir carezze,

e impronte che non sarebbero bastate per l’eternità,

malgrado lo specchio caldo dei tuoi occhi verdi,

non ho più rivisto nulla di simile,

in questa bizzarra similitudine di tempo,

oggi chiedo scusa all’uomo incerto che sono,

se ancora oggi mi rifugio in te,

amando ciò che siamo stati,

e non questo imponente silenzio funereo.

GIRI DI CONDOTTA

La meccanica dei dispiaceri,

una voluta concertazione mai postuma,

velata e circosritta a piè pagine,

mai intterrotta,

cercata,

reiterata,

amata ..

Una sorta di nuvola dentro il fango,

quella scogliera vittima di troppi suicidi,

tra vittime inappropriate e razzismo spietato.

L’umanità avanza una condotta veloce,

l’umanità seduce il futuro,

solo per affiancarsi a tecnologie sempre più rugginose,

annaspando culture e politica,

sulla deriva gemente di verbi e paradossi,

il riso tenero come scorciatoia,

la gioia abbandonata ai bambini,

l’ultimo barlume che non salvò coscienze a mollo.